IL TALENTO DEL LUF

Da bambino credevo di andare forte in bicicletta. Facevo le gare in cortile con i vicini di casa e vincevo praticamente sempre, con qualsiasi mezzo e senza fare fatica. In prima media contagiai i miei compagni di classe con la passione per il ciclismo. Ero già un fan sfegatato di Gianni Bugno, invitavo i miei amici a casa a vedere la tappa del Giro e poi uscivamo in bicicletta emulando le gesta dei nostri campioni.

Comprammo anche le magliette delle squadre, ovviamente giganti perché della nostra misura non esistevano. Io avevo, ovviamente, una maglia della Gatorade che mi arrivava sopra il ginocchio, Al era un tifoso di Chiappucci e comprò quella della Carrera, Luf adorava Franco Ballerini e indossava la maglia della Mapei, Bero quella della Lampre, chissà perchè. Eravamo una macchia di colori ben descrittiva dei primi anni ’90.

Noi quattro eravamo lo zoccolo duro, ma capitava fossimo anche più di dieci a sfidarci nelle vie del paese: ‘giro della piazza’ e traguardo in via Burgo, al secondo dosso. Tutta pianura. Oppure ‘giro della dogana’, dove bisognava affrontare anche la via XXV Aprile che era in falsopiano. Al era alto con lunghe leve, dotato di un’intelligenza superiore e già perfettamente in grado di gestire lo sforzo; Bero giocava seriamente a tennis e aveva già le gambe muscolose; io ero piccoletto, magro come un chiodo e totalmente sprovvisto di massa muscolare; capii presto che quella di essere un campioncino era solo un’illusione: le buscavo praticamente sempre, tranne qualche volta che, nel ‘giro della dogana’, riuscivo a sorprendere tutti partendo da lontano.

E poi c’era il Luf.

Il Luf era, per usare un eufemismo, un po’ cicciotto. Era anche molto alto. In quel periodo, tra scuola e fuori, facevamo ogni tipo di sport: corsa, calcio, camminate, campestri, tennis. Non c’era verso, Luf pagava sempre la propria stazza. Nei giochi di squadra, per intenderci, era quello che veniva scelto per ultimo.

Ma un giorno, improvvisamente, compresi cosa fosse il talento. Accadde quando, ovviamente all’insaputa dei nostri genitori, andammo a fare un po’ di salita. Salita si fa per dire, ma a 12 anni un cavalcavia vale uno Stelvio. Uscimmo dal paese per cimentarci in un arrivo in salita, che poi era lo strappo di Pizzo, 400m non duri sulla strada del lago di Como che porta da Cernobbio a Moltrasio.

Partii convinto di non avere rivali e di avere finalmente un’occasione di riscatto. Presi la salita in testa, a tutta, senza girarmi. Poi iniziai a sentire un po’ di fatica, del resto avevamo tutti un ‘rampichino’, come chiamavamo le MTB in quegli anni, ma ero sicuro di non avere nessuno alle calcagna. Pesare 45kg doveva  pur avere i suoi vantaggi! A un certo punto qualcuno mi affiancò. Fui sorpreso e pensai fosse Al, invece era Luf. Pedalava agilissimo e spingeva i suoi 30kg in più come niente. Mi staccò e vinse in scioltezza.

Il Luf quando saliva in bicicletta si trasformava, soprattutto in salita, quando c’era da fare veramente fatica. Inspiegabile? No, quello era il talento, ovvero la capacità di ottenere prestazioni che andassero oltre la logica delle cose. Il Luf aveva, e ha tuttora, un talento che nessuno di noi altri ha mai avuto.

Nel ciclismo, già allora, ti misuravano i battiti del cuore e i tempi di recupero e capivano se quella era la tua strada. Oggi non ne parliamo. Ma il talento non è misurabile in nessun modo: ce l’hai o non ce l’hai.

Il Luf fu l’unico di noi che corse in bici, anche se per un breve periodo. Purtroppo non riuscì mai a perdere abbastanza peso per essere veramente competitivo. Nel ciclismo poche centinaia di grammi possono fare la differenza, e 20kg in più dei suoi avversari erano un fardello insormontabile. A questo si aggiunse una predisposizione naturale verso la bronchite che lo frenava ulteriormente nei mesi più freddi.

Ancora oggi, a distanza di 30 anni, il Luf supera gli 85kg, ma gli basta un filo di allenamento per andare più di tutti. Già, perché io, Al e Luf usciamo ancora insieme e, dimenticandoci di avere due figlie a testa, quando inforchiamo le nostre biciclette, ormai lontane dai cancelli che usavamo all’epoca, torniamo ragazzini e ci sfidiamo ancora all’ultimo respiro e all’ultimo capello, come evidente dalla foto qui sopra.

La magia del ciclismo, la magia dell’amicizia e un pizzico di follia.

Pubblicato da papà Gianni

Cantastorie

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