Sono di Como, amo la bicicletta e le corse da quando sono bambino e ho 40 anni. La logica e la tempistica non mi lasciano via d’uscita: ho sofferto come tutti e più di tutti la morte di Fabio Casartelli.
Fabio era un giovane campione comasco, vincitore delle Olimpiadi di Barcellona del 1992; perse la vita a causa di una caduta lungo la discesa del Portet-d’Aspet durante il Tour de France del 1995. Io ero un ragazzino e guardavo la corsa con mio papà davanti alla televisione. Ricordo ogni terribile istante, ma due cose mi sono sempre rimaste impresse: l’immagine di Fabio immobile per terra con il sangue che gli usciva dalla testa e che, mentre si attendevano notizie delle sue condizioni, Adriano de Zan e Vittorio Adorni praticamente smisero di fare la telecronaca.
Per alcuni interminabili minuti parlavano a scatti, con frasi brevi e senza senso, finché De Zan annunciò la morte di Fabio e poi si mise a piangere. Adorni prese in mano la situazione dicendo che lo sapevano da qualche minuto, ma prima di dirlo volevano essere sicuri che la famiglia fosse stata avvisata. Erano tempi in cui l’empatia e le persone valevano ancora più delle notizie date per primi a ogni costo.
Fabio non aveva il casco. Nessuno lo aveva. In quel periodo non era obbligatorio in corsa, tranne che in Belgio. E dovettero morire altri corridori prima che lo diventasse, nel 2003. Da quel giorno in poi il casco salvò la vita di molti corridori.
Oggi, il casco non è ancora obbligatorio per i cicloamatori.
Qualche anno dopo la morte di Fabio, la Fondazione Casartelli iniziò a organizzare una granfondo dedicata a Fabio. Io e il mio inseparabile socio Matteo ci iscrivemmo, senza sapere a cosa stessimo andando incontro. Ancora una volta, non eravamo preparati a sufficienza, né per gambe né per esperienza. Non avevamo mai partecipato a una granfondo, non sapevamo come alimentarci e dopo una colazione con latte e biscotti riempimmo una borraccia d’acqua convinti che sarebbe bastata per raggiungere il traguardo, dopo oltre 130km e il Ghisallo. Noi avevamo la passione per il ciclismo, la voglia di ricordare Fabio e poco altro.
Rigorosamente in maglia MG Technogym, acquistata anni prima perché era la squadra di Gianni Bugno, ci presentammo alla partenza in terribile ritardo; quel giorno il mio Nokia 3210 mi tradì e la sveglia non suonò. Ci diedero un pacco gara che conteneva un sacco di cose. Chiedemmo se potevamo lasciare il pacco gara in un punto e recuperarlo al ritorno. Un signore ci disse: “Va bene, ma il casco indossatelo.”.
In quel pacco gara c’era un casco.
Già questo era assolutamente straordinario. In nessun’altra granfondo a cui ho partecipato successivamente l’organizzazione ha fornito un casco a ogni partecipante. Così indossammo un casco per la prima volta e ci avviamo verso la partenza cercando di raggiungere un gruppetto di ciclisti ritardatari come noi.
E successe una cosa che non dimenticherò mai: pedalando in piedi e in accelerazione, Matteo infilò la ruota anteriore in un tombino, la ruota si bloccò e lui si ribaltò in avanti picchiando la testa per terra. Non era mai caduto prima di allora e io non avevo mai visto un amico cadere. È una bruttissima sensazione.
Ma aveva il casco! Un casco che aveva appena indossato per la prima volta nella sua vita, fornito da un’organizzazione eccezionale e provvidenziale. Non a caso era l’organizzazione della Fabio Casartelli.
Ricordo che si alzò subito, aveva la bocca leggermente sanguinante. Ma si picchiò con la mano sul casco, come per ringraziare il suo nuovo amico. Gli chiesi se se la sentisse di partire e annuì. Cambiammo la camera d’aria che si bucò per l’incidente e partimmo, da soli, con il camion scopa alle nostre spalle.
Ce la mettemmo tutta, ma andavamo clamorosamente piano rispetto agli altri. Lungo tutto il percorso i volontari che bloccavano il traffico dovettero attendere il nostro passaggio prima di tornare dalle proprie famiglie per il pranzo della domenica. Quando arrivammo al bivio tra il percorso breve e quello lungo, eravamo stanchi, avevamo fame ed eravamo stufi di avere il camion scopa alle calcagna. Così decidemmo a malincuore di fare il breve, rinunciammo al Ghisallo e salimmo per la Valbrona.
Quella fu la mia prima granfondo e fu anche il giorno in cui capii che il casco, in bicicletta, va sempre messo. Oggi, a distanza di tanti anni, quel casco lo uso ancora. Quando vado con la bici da corsa, quando esco in MTB, quando vado al lavoro e quando porto le bambine a scuola.
E invito tutti a farlo.