Saremo pronti per il Mortirolo?
Impiegammo anni a prendere la decisione. Noi, amanti del ciclismo ma completamente impreparati, destrutturati e ingenui, non sapevamo nulla di allenamenti, alimentazione, watt e ammennicoli vari.
Noi inforcavamo le nostre biciclette qui intorno e ci davamo battaglia ovunque, senza mai allontanarci troppo da casa e, quando andava bene, con solo una borraccia piena d’acqua.
Ma il Giro d’Italia, quel 29 maggio 2004, tornava sul Mortirolo per la prima volta dopo la tragica morte del pirata Marco Pantani e noi non volevamo mancare.
Forse speravamo che il mostro ci accogliesse facendo gli occhi dolci, e vedendo due sprovveduti ragazzetti animati da buone intenzioni, ci desse una mano e si facesse più buono solo per noi.
Ma non fu così. Il mostro ci respinse come una zanzariera. Non eravamo pronti. Il mio amico Matteo staccò un pedalino sulla prima rampa e non riuscì più a partire. Dovette salire a piedi fino al primo tornante, dove lo aspettai, per riuscire a riagganciarlo.
Ricordo ancora il suo sguardo terrorizzato. “Come farò a fare 13km così?”. Io, dalla mia, avevo il vantaggio di un fisico ancora immaturo, neppure 60kg di peso e un cuore insolitamente lento. “Vai, non ha senso che tu stia qui”.
In quasi 30 anni che Matteo e io usciamo insieme in bicicletta, non ci siamo mai abbandonati su una salita. Ma quel giorno avevo un compito, dovevo tagliare il traguardo per Marco, è così andai.
A sinistra e destra, la gente già assiepava ogni metro di strada. Nei primi km ciclisti mi superavano ovunque, mi sembrava di essere un ostacolo fermo in mezzo alla già stretta carreggiata.
“Ma che ci sto a fare qui?”, mi chiedevo, mentre arrancavo sulla mia bicicletta presa a caso di terza mano, troppo piccola per me, sempre sui pedali con l’ultimo rapporto disponibile, che poi avrei scoperto essere più o meno lo stesso che montavano i corridori.
Poi, piano piano, successe qualcosa di strano e imprevisto. Divenni tutt’uno con la montagna, armonizzai il respiro con la pedalata e con il battito del mio cuore; trovai il mio ritmo e persino la fatica sembrò scomparire.
La gente iniziò a tifare per me. Sul serio, sembrava fosse lì proprio per me, forse impietosita dalla mia attrezzatura, dall’abbigliamento improvvisato e dallo zainetto con il cambio e i panini per il pranzo. Ebbro di adrenalina iniziai a salire dignitosamente e riuscii persino a riprendere alcuni dei ciclisti che mi avevano superato prima.
Ero in trance. Non avevo il ciclo-computer, non lo uso neppure oggi. Non so quanto ci ho messo e neppure quanto andavo, ma sono sicuro di non essere mai andato così forte in tutta la mia vita.
Ero talmente fuori di me che quando entrai nell’ultimo km e mi suonò il telefono e io risposi come se niente fosse. Qualcuno del pubblico mi urlò ‘ganassa’. Era mio papà, che mi diceva che su Rai 3 erano in diretta dal Mortirolo per una celebrazione di Pantani. E io ero poche centinaia di metri sotto!
Mi alzai di nuovo sui pedali e diedi fondo a tutte le mie energie. La gente aumentava e iniziai a passare con fatica. E poi vidi lo striscione. Tutto d’un tratto sentii tutta la fatica, come se mi fossi svegliato all’improvviso dal torpore. Mi piantai di colpo, col cuore in gola e le gambe di marmo. Mancavano però solo una ventina di metri e…
Un poliziotto mi si parò davanti e mi bloccò, mettendomi le mani sul manubrio. Io urlai:” Noooooo!”, ma lui mi fece segno di tacere. Solo in quel momento mi resi conto che intorno a me, nonostante ogni ordine di spazio fosse colmo di gente a perdita d’occhio, c’era un silenzio assoluto.
E poi lo vidi. Pochi metri davanti a me, un signore in lacrime stava spingendo una bicicletta oltre il Gran Premio della Montagna.
Non era un signore qualsiasi e non era una bicicletta qualsiasi. Il fidato meccanico di Marco Pantani stava spingendo simbolicamente la bicicletta del pirata oltre la linea. Quello fu il mio primo Mortirolo, anche se non arrivai mai veramente al traguardo, e l’ultimo Mortirolo di Marco. Da quel momento in poi non permisero più a nessuno di passare da lì. Dopo Marco, solo il miglior scalatore del Giro d’Italia avrebbe avuto il permesso di passare.
Se non ricordo male passò per primo Garzelli, che poi vinse la tappa. Quel giorno Cunego, che vinse poi il Giro, dovette rintuzzare anche l’attacco del suo compagno di squadra, quel Gilberto Simoni che partiva come capitano e si sentì tradito dal giovane gregario che andava più forte di lui. Più o meno come successe ad Adorni con Gimondi, che vinse il Tour de France del ‘65 a 23 anni partendo come suo gregario.
In un giorno, tante persone, più o meno importanti, scrissero una storia che non avrebbero mai dimenticato. Storie pubbliche che son passate alla storia, come quella del meccanico di Pantani e quella di Cunego. Storie che resteranno per sempre private, come quella di Matteo che mi raggiunse, stremato ma orgoglioso di avercela fatta, dopo 35 minuti.
E una storia un po’ pubblica e un po’ privata, la mia. Perché qualcuno mi disse che nel filmato Rai, che non ho mai più rivisto né ritrovato, guardando dietro la scena principale, si vede un poliziotto bloccare un ignaro e stravolto ciclista pochi metri prima dell’arrivo sulla vetta del Mortirolo.