18 Luglio 2015. Immagina di essere finalmente sulla cresta dell’onda, dopo anni di immani fatiche, sacrifici e gavetta. Hai realizzato il tuo sogno di sempre: sei al Tour de France e indossi la maglia gialla. Corri tra due ali di folla. Il pubblico del ciclismo incita tutti, dal primo all’ultimo, ma quel giorno no, c’è qualcosa che non va.
Tu passi e la gente ti fischia e ti insulta. Poi uno spettatore inizia a correrti di fianco, ha in mano qualcosa che sembra una borraccia. Forse vuole rinfrescarti, visto che la giornata è caldissima e tu sei in bici da molte ore. Un fiotto ti arriva in faccia e ci metti un attimo a capire, ma l’odore è inconfondibile. Qualcuno ti ha appena gettato del piscio addosso. Hai sentito anche le parole, che ti hanno provocato ancora più disgusto: “Sei un dopato”.
Chris Froome è sicuramente il corridore più discusso dell’ultimo decennio: amato e odiato, forse più odiato. Perché, nonostante non sia mai stato trovato positivo, è stato a più riprese accusato di doping. Tanti indizi, nessuna prova. Ad alimentare i sospetti, Chris all’inizio della carriera andava piuttosto piano, salvo poi diventare un campione. ‘Improvvisamente’, qualcuno sostenne. Mica tanto, secondo me. Perché approdò al Team Sky, che sperimentava 15 anni fa ciò che oggi fanno abitualmente tutte le squadre professionistiche, dilettantistiche e persino molti amatori della domenica: applicare la tecnologia alla vita ciclistica a 360°.
Froome, con un’ottima predisposizione fisica (senza quella non vai da nessuna parte), una dedizione fuori dal comune e una forza di volontà extraterrestre, è stato l’oggetto di sperimentazione perfetto per il ciclismo scientifico. Stile di vita impeccabile, allenamenti monstre, innovazioni tecnologiche su bicicletta e abbigliamento, studi di biomeccanica e aerodinamica, analisi approfondita dei dati cardiaci e di potenza, per un ciclismo decisamente meno romantico di un tempo, ma molto più efficace.
Quelle pratiche, oggi conosciute e riconosciute, erano segreto industriale del Team Sky; le prestazioni che ne scaturirono sembravano quindi inspiegabili, ma basta incrociare qualche dato per comprendere come oggi siano diventate la normalità: la nuova generazione di fenomeni, cresciuta fin dalle giovanili con il supporto delle tecnologie, lo sta dimostrando. Per fare un esempio, nella recente Tirreno Adriatico, Pogačar ha scalato la salita di Prati di Tivo in 36.06. Froome, quando vinse nel 2013, ci impiegò oltre due minuti in più. Con quel tempo non sarebbe neppure arrivato nelle prime venti posizioni.
Caro Chris, forse è il momento di chiederti scusa per aver dubitato della tua onestà.